Le elezioni comunali appena terminate si sono dimostrate sintomatiche di una situazione politica assai precaria e incerta e hanno restituito un prospetto sicuramente molto interessante per chi è portatore di istanze autonome e di autorganizzazione.
Il primo dato, quello che ci riguarda più da vicino, è quello dell’astensionismo: attestandosi al 49% ha dimostrato che esiste una larga fetta di popolazione che non si è recata ai seggi per esprimere una preferenza, alcuni sicuramente spinti da una insoddisfazione legata alle possibile preferenze da esprimere in questo secondo turno, ma che al primo turno avevano partecipato alle votazioni, altri invece spinti di una ampia gamma di possibili variabili che, come militanti, abbiamo l’obbligo di provare a interpretare.
Tuttavia, crediamo sia necessario anche un altro lavoro, che apparentemente ci riguarda molto meno da vicino, ma che comunque può essere una buona cassetta degli attrezzi nell’interpretazione di quello spazio mediale che è la politica su cui ogni giorno ci si trova ad agire.
Interpretare quindi, come, in questi ultimi decenni, si sia modificata la forma-partito e con essa non solo il modus con cui queste realtà gestiscono il consenso, ma anche come cambia il rapporto dell’individuo-popolazione con il piano della consesualità.
Affrontare questo argomento, nei termini in cui, a nostro avviso, è interessante farlo, significa innanzitutto dotarsi delle stesse lenti del nemico, leggere la realtà politica con le sue categorie, assumere quindi che, la cosiddettà “sovranità popolare”, debba essere mediata da forme di rappresentanza.
Il partito, ganglio essenziale della democrazia moderna, fa la sua comparsa in una forma più strutturata con le rivoluzioni liberali e democratiche. Agli albori della loro storia, i partiti, si costituivano più come aggregazioni la cui attività era quella di comitati elettorali e/o gruppi parlamentari, reti di individui che si cementavano attorno a figure di rilievo di cui sotenevano le idee o le vertenze: al parlamento accedeva, quindi, chi era capace di attirare un consenso intorno alla propria figura, senza tuttavia essere in alcun modo legato a una qualsiasi disciplina di partito; posizione che gli permetteva di cambiare schieramento a seconda della convenienza senza alcuna conseguenza, basti pensare agli anni 80 dell’Ottocento, periodo del trasformismo, quando la Sinistra di Depretis conquistava il consenso anche dai deputati della destra.
Con l’avvento della società di massa e l’universalizzazione del suffragio, assistiamo a una sostanziale quanto essenziale trasformazione nella struttura del partito: il partito diventa di massa e si dota di una struttura organizzativa molto più serrata e ferrea.
Innanzitutto vi è un ampio apparato organizzativo, supportato da funzionari professionalizzati; si radica nella società, aprendo sedi territoriali e inventando un meccanismo di iscrizione e tesseramento; non solo, spesso si dota anche di organizzazioni collaterali che gli diano la possibilità di entrare maggiormente in contatto con specifici segmenti sociali (giovani, donne, anziani etc…). Soprattutto però, il partito-massa crea consenso intorno a grandi linee di frattura che corrispondono a divisioni di classe o di interesse, tanto che la scelta politica dell’elettore non è tanto verso un singolo individuo ritenuto valido, bensì, è una scelta ideologica verso il partito stesso (In Italia probabilmente è con le figure di Berlinguer e Moro che si possono vedere i semi della dis-ideologizzazione del partito politico: entrambi, pur in continuità con una certa cultura politica, rappresentavano il superamento della polarità tra i due maggiori partiti-massa italiani).
Pur divergendo sulle condizioni e le prospettive a venire, la maggior parte di politologi concordano nel dichiarare finito il partito-massa e nell’ammetere l’esistenza di forme-partito ormai post-ideologiche.
Il primo a definire questa nuova forma-partito è probabilmente Otto Kircheimer. Il politologo tedesco diagnostica, nel partito post-ideologico, sensibili trasformazioni in relazione ai modelli che lo avevano preceduto: annacquamento del bagaglio ideologico, diluizione dei riferimenti alle divisioni di classe e di interessi, diminuzione del ruolo degli iscritti, accentuta personalizzazione della leadership. Altra definizione di primaria importanza, nell’ermeneutica che una parte del liberalismo fa della sua storia, è quella di Marco Revelli: secondo il quale, i partiti di massa, non sopravviverebbero alla fine dell’economia fordista; con i mutamenti economici ma, soprattutto, con l’espansione dei mezzi di comunicazione di massa, le tendenze individuate da Kircheimer subirebbero una forte accelerazione.
Da una retroterra storico-culturale simile per tutti, i partiti “post-ideologici” si presentano in una molteplicità di forme. Dal Partito-personale (esempio di FI e Front National) al partito-monotematico (che aggrega sulla base di un problema specifico, vedi i Verdi) fino al partito regionale (anche se la Lega Nord sembra aver virato verso una tipologia-partito più leaderista e personalista).
Sfuggono però a categorizzazioni più serrate sia il Partito Democratico che il Movimento 5 Stelle: il secondo perchè si può dire essere la realtà in più netta discontinuità con esperienze passate, il primo perchè, in qualche modo, sembra raccogliere in se caratteristiche e linee di tendenza appartenenti a varie tipologie, senza contare che, per quanto alcune personalità di spicco di questo partito vorrebbero intensamente, esso contiene ancora residuali rimasugli della sua storia (per quanto attiene all’organizzazione della forma-partito e non alle sue idee ovviamente).
Questo perchè, come sempre accade dopo le elezioni, tutti sono pronti a dichiarare finita una esperienza, oppure a sentenziare su un’altra, pericolo da cui, in qualche modo, dobbiamo distaccarci, per provare invece a tracciare delle insufficienti, quanto realistiche, variabili sullo sviluppo della politica parlamentare.
Qualunque partito abbia un certo tipo di potere, economico e politico, e abbia la capacità di lavorare su uno spazio clientelare, può allargare il suo consenso. Con la fine del Partito-Massa dobbiamo in qualche modo dichiarare finita o aspettarci che sia così, una certa forma di lealtà nel rapporto elettore-partito, così come la fine di una tradizione partitica e di una visione dello spazio territoriale come luogo di ricerca e consolidamento del consenso a prescindere dal periodo elettorale.
L’elettorato è ormai una realtà sottoposta a estrema mobilità, a variazioni di preferenze, ad aggregazione e disgregazione su vertenze anche micro. Il voto è di “protesta” di “cambiamento” ma non è più di “identità”, di “appartenenza” di riconoscimento in una struttura o di riconoscimento di validità di un programma politico. Questo porta il Movimento 5 Stelle a identificarsi con “il cittadino” e non il contrario.
Come è avvenuto per Rondolino, opinion maker del Partito Democratico,che ha scritto sull’Unità: “La rivoluzione renziana si è sempre rivolta a due aree elettorali molto precise: a quella parte di elettorato moderato che in passato aveva scelto FI, e quella parte di elettorato antisistema che aveva scelto il movimento 5 stelle”. Elettorato moderato e elettorato antisistema: che nella mobilità elettorale dei tempi che corrono vuol dire tutto e niente.
Rivoluzione renziana e partito democratico non sono ancora la stessa cosa, per poterlo essere, Renzi deve completamente annullare quella rimanenza storica che lo stesso Rondolino definisce una “zavorra”.
Partendo da questi presupposti, penso che esistano una miriade di linee che i partiti potranno percorrere nel loro modificarsi: accentuazione della leadership, quadratura su vertenze, così come tentare la strada del renzismo arrivando a far coincidere, almeno nella teoria, il partito con la forma governo, anche se in modo totalmente diverso dal ruolo che il partito assume nei sistemi politici Socialisti, ma questo è ovvio.
Lo sviluppo della politica partitica restituisce però un dato estremamente interessante: dopo 20 anni dalla fine dei Partiti-Massa possiamo dire con cognizione di causa che il sempre crescente dato di astensionismo deve ormai essere considerata caratteristica strutturale.
Non c’è un milieu di potenziali elettori pronti ad andare a votare appena il loro messia farà la sua apparizione, è più credibile che esista una percentuale di persone indisponibili al confronto-partitico-istituzionale. E’ difficile dire se questa situazione sia una variabile incalcolata, sottoposta alla costante possibilità di sussunzione oppure se sia una variabile ammessa e, come tale, accettata dalla scienza politica, oppure creata “ad hoc” per poter potenziare un livello di clientela e interessi nella creazione di uno spazio politico di consenso. Resta il fatto che, comunque la nostra controparte lo interpreti, il fenomeno dell’astensionismo rimane la contraddizione più evidente nel rapporto tra politica istituzionale e popolazione, mediata dalla scienza del consenso.
Contraddizione che, se agita in modo intelligente e funzionale può aprire interessanti spazi di rottura e conflitto.