Roma in queste settimane è tornata prepotentemente al centro del dibattito politico nazionale e della sua cronaca. Basta citare alcuni casi: il Renzi Bis mascherato da Gentiloni che annulla completamente la chiara volontà di quasi venti milioni di “no”; il caos generato dall’arresto di Marra in Campidoglio e dentro al movimento 5 stelle; l’eterno utilizzo mediatico, talvolta decisamente a sproposito, del degrado. Non vi è giornale, televisione o sito internet che non affronti la “questione Roma”. Allargando lo sguardo poi oltre al centro, andando in quelle periferie strapopolose ma disabitate da servizi e welfare, la situazione raccontata sembra essere addirittura peggiore. Fuochi tenuti accesi da inquietanti venti di razzismo e xenofobia, una guerra fra poveri strisciante che porta l’ “autoctono” a prendersela col migrante, a dare a lui la colpa dei disservizi e di una vita non certamente all’altezza delle aspettative che la società impone.
Anche fatti di cronaca tragici diventano occasione per organizzare sit-in “pro italiani”, minoritari magari nel numero effettivo dei partecipanti ma capaci di avere ottimo eco mediatico e sedimentare comunque un messaggio che magari viene assimilato in maniera involontaria ma che molto spesso sentiamo uscire dalla bocca delle persone: “prima gli italiani”. Così la città viene schiacciata dentro questa narrazione che taglia con l’accetta le situazioni, analizzandole solamente in maniera spot, ragionando attorno a “views” e ad effetti speciali piuttosto che soffermarsi sulle cause di alcune cose e sui possibili anticorpi già presenti dentro ai territori.
Ma Roma non è solo questo, è anche tanto altro rispetto al racconto dentro alla quale viene descritta e semplificata e l’ultimo mese ne è la dimostrazione. Tre grandi manifestazioni, di massa, con migliaia di persone ad ognuna, seppur con diverse caratteristiche e diversi slogan hanno avuto una cosa in comune: la presenza, organizzata sia nella piazze che nei percorsi di avvicinamento, di migliaia di migranti che camminavano insieme agli italiani per invocare i propri diritti sul posto di lavoro, per il diritto alla casa, per un accoglienza degna e per la possibilità di transitare nei paesi al grido di “libertà di movimento”. Il 12 novembre, assieme ai braccianti delle campagne foggiane organizzati nella rete “campagne in lotta”, vi erano gli operai facchini della logistica, gli occupanti di case e non solo. Lì, in quella piazza, si rivendicava l’importanza di diritti sul posto di lavoro a partire però dai percorsi di lotta, dalla forza operaia, dalla possibilità di avere trasporti pubblici decenti, le residenze e la possibilità di avere un medico di base. Ed è stato un corteo veramente enorme, che ha sfilato fino al Viminale trovando il solito muro da parte di chi dovrebbe gestire politicamente questo paese. L’8 dicembre il movimento di lotta per la casa è sceso in piazza occupando simbolicamente il piazzale dove è allestito annualmente l’albero natalizio a Piazza Venezia, per segnalare l’impossibilità per tanti e tante “senza casa” di festeggiare le feste in maniera dignitosa specialmente perché sono sempre di più quelli che non hanno neanche una casa dove festeggiarle. Si chiedeva un incontro con la giunta a 5 stelle per ridiscutere la vergognosa delibera Tronca e la possibilità di oltrepassare l’articolo 5, la risposta è stata la politica il silenzio e una carica con tanti fermi da parte della polizia. Il 17 dicembre, ancora, migliaia di persone sfilano per il centro di Roma per la libertà di movimento, un accoglienza degna e la costruzione di reti di solidarietà antirazzista nei territori seppur questa piazza, movimenti di lotta per la casa e pochi altri esclusi, ha probabilmente mostrato tutti i limiti di una sinistra istituzionale che ormai fatica ad essere soggetto credibile e in grado di aggregare, accontentandosi di formare cartelli in grado di “gestire in maniera di sinistra” l’esistente piuttosto che provare a immaginarne un altro.
Queste manifestazioni, costruite da soggetti politici differenti, hanno avuto comunque un importante e numericamente consisente presenza dei migranti non più come “oggetto da mostrare” bensì come realtà organizzata in grado di comprendere quali sono i problemi, analizzarli, affrontarli e costruire mobilitazione per risolverli o quantomeno sollevare il problema. In queste manifestazioni vi erano appunto tantissime persone provenienti dai vari angoli del mondo che per qualsiasi motivo si trovano a stare stabilmente in Italia o semplicemente ci si ritrovano come passaggio obbligato verso altri paesi, ma anche tanti “italiani” stanchi di dover subire la retorica razzista e xenofoba, che individuano nel “padrone” il nemico in uno scontro quindi verticale e non orizzontale. Se non ci sono le case la colpa non è dei migranti ma di una precisa gestione che favorisce l’investimento privato e che vede la casa come un privilegio e non un diritto! Se non c’è lavoro, o quello che c’è è precario e sottopagato, la colpa non è del migrante che vive la stessa condizione dell’italiano (anzi, a volte riesce a mettere in campo conflittualità ben più elevata) ma delle politiche lavorative criminali come il jobs act! Potremmo andare avanti per ore, ma il messaggio penso sia chiaro.
Per concludere: a partire dal racconto fatto in alto della città di Roma, non era scontato riuscire ad organizzare queste tre manifestazioni che si ponessero anche concretamente il problema del “consenso” dentro la metropoli, riuscendo così anche ad oltrepassare la cortina di fumo dei media. Una costruzione orizzontale, nata sui territori, che sembra indicare la via corretta per sconfiggere il virus del razzismo e della xenofobia nei quartieri popolari. La strada è ancora lunga, tortuosa, in salita, ma queste tre date ci dimostrano come sotto alla cenere provocata dal fuoco del razzismo, arde una brace antirazzista che va alimentata e costruita come una possibilità di lotta.