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Ancora Roma: il sindaco, il commissario e i grandi eventi

marinoAncora Roma. La prima domanda da farsi è perché? È davvero cosi interessante per il paese una storia di vanità politiche e incompetenza, vera e presunta ingordigia e malaffare? Ci racconta qualcosa –posto che la vicenda politica in questione sia importante- sulla città di Roma e sui suoi cambiamenti al tornante della crisi. La risposta è NO. Questa storia non ci parla affatto di una città dove dopo la crisi tra le persone fino ai trenta anni, solo un “giovane” su tre ha un’occupazione, dovendo contare fra questi anche quelli che ne ricavano solo i soldi per una pizza. L’infinita prosopopea su Roma città del vizio, è rinforzata da un’industria cinematografica che, pur presentandosi come critica, si mette in realtà al servizio del Potere producendo le immagini di una Roma che non esiste, o che -se volete- è sempre esistita. “ Suburra” non dice quali siano stati gli effetti della distruzione di ricchezza avvenuta tra il 2008 ed il 2014 (la più grave tra i territori regionali in Europa, insieme non casualmente a Calabria e Sicilia), ma ne identifica con certezza le cause. Il malaffare inteso come habitus degenerato dell’abitante dell’Urbe, che si è fatto attaccare dal cancro della Corruzione perché anch’egli privo di anticorpi.

Contro questo disfattismo per riuscire ad orientare un punto di vista critico bisogna innanzi tutto rovesciare completamente la prospettiva. Il dibattito ossessivamente amplificato dai più grandi media nazionali sulla Capitale non è niente altro che la riproposizione odierna di quella che nella storia dell’Italia Unitaria si è chiamata “Questione Romana”. Dopo che Roma è diventata la Capitale d’Italia suggellando simbolicamente l’egemonia della borghesia di una parte del paese su tutto il territorio nazionale, i discorsi pubblici sulla Capitale sono diventati lo specchio riflesso dei conflitti interni, delle ansie e delle aspirazioni delle classi dominanti Italiane sul futuro del paese tutto. Perché la particolarità di questo paese è che, anche dentro la scala dello Stato Nazione, il dominio delle classi superiori è sempre stato fortemente localizzato. Bisognerebbe invece rovesciare la prospettiva e tentare di capire che cosa le vicende della Metropoli romana fatte di intrighi, ma anche e soprattutto di conflitti di massa possono dire oggi sulla trasformazione del Paese. Proviamoci.

La sinistra intellettuale borghese si è sempre distinta nell’esercizio del moralismo come arma politica e nel 1955 restò celebre l’inchiesta dell’Espresso, che sta costantemente sulla bocca anche dell’ultimo opinionista, intitolata “Capitale corrotta, nazione infetta” che metteva in luce gli scandali connessi allo sregolato sviluppo edilizio di Roma e che portò successivamente alle dimissioni dell’allora sindaco Rebecchini. Era un’inchiesta che esprimeva oltre ad un sano giornalismo di critica, anche l’intolleranza, oltre che la semplice incomprensione, di un meccanismo di sviluppo basato esclusivamente sulla Rendita fondiaria. Mentre i modelli urbani delle città del così detto triangolo industriale abituavano la borghesia ed i ceti medi italiani ad iniziare a confrontarsi con il resto d’Europa, l’Italia aveva una Capitale dove le favelas rimarranno incontrastate fino agli anni ’70 e faceva finta di non capire che questo non era che l’effetto del consolidamento del suo dualismo territoriale.

Oggi l’intensità del lamento è identica, ma il contesto è totalmente cambiato. Non esiste più –se non nelle parole di qualche magistrato meridionale che con accento borbonico celebra le virtù del modello Expo- un’ Italia produttiva da contrapporre alla Capitale malata. Anzi, è il paese intero che ha imparato molto da Roma. La bolla immobiliare ha inondato di cemento tutti gli altri grandi comuni, medie città della decorossissima provincia emiliana o piemontese hanno dovuto dichiarare bancarotta per gli abusi dei loro amministratori, e la Milano “capitale morale”, dopo essere stato fra i pochi luoghi in Italia dove il Capitale aveva espresso la sua essenza ai tempi del fordismo, ora celebra la sua “rinascita” sul turismo fieristico di una sagra di paese di dimensioni continentali. Segno di quali tempi e di quale Capitalismo parliamo.

E allora perché intestardirsi a parlare dell’eccezione Romana in termini apocalittici, quando solo fino a pochi anni fa la stessa città era il “modello Roma”? Perché fino a dieci anni fa bastava un’etichetta per celebrare l’alleanza tra Pd e palazzinari, e l’impiego di tutte le risorse pubbliche ai fini della riqualificazione dei quartieri storici e della loro trasformazione in Disneyland per turisti, e ora bisogna rifondare la Capitale dalle fondamenta? Perché quel periodo ha creato le basi di una crisi sociale esplosa poi in decine di mobilitazioni, conflitti, palazzi occupati nei quartieri, che neanche il pugno di ferro militare prefettizio riesce a contenere? Anche, ma non solo. La risposta di quel (piccolo) pezzo di città fatto di professionisti, intellettuali e gente bene, che vive di nostalgia per quel periodo avrebbe potuto facilmente proiettare la causa del veloce declino sulla meteora post-fascista Alemanno, che pure dal Veltronismo aveva ereditato molto, cambiandogli però il segno. Del resto la fotografia di una classe politica impresentabile ritratta nelle sue maschere di maiale inizia allora, con Fiorito, consigliere regionale del pdl, che quelle maschere le compra con i soldi dei contribuenti. Passate le elezioni però, la narrativa del degrado non finisce ma anzi si moltiplica, investe Marino, la sua giunta, il sistema dei Servizi Sociali e straborda dal solo agone politico. I maiali prendono corpo “fisicamente” nelle stesse strade mentre rovistano nei rifiuti abbandonati sulla Boccea diventando il simbolo di una decadenza che smette di avere delle spiegazioni razionali, anzi le rovescia (metter un link alla foto). È qui che risiede la spiegazione del caso Marino. Se la manutenzione quotidiana della città è ai minimi termini, è a causa della draconiana cura di austerità imposta a Roma per risolvere la sua crisi fiscale, come quella di altre città. Invece il pubblico diventa esattamente l’obiettivo da colpire per la risoluzione del degrado. Marino si è prima debolmente opposto a questa strategia. Non per anti-liberismo, ma perché privato della leva della spesa pubblica veniva meno il modello Roma nella sua versione originale, fatta di significativi flussi di spesa orientati a sostenere l’attrattività turistica della città. Qui sta il punto per le classi dirigenti nazionali (ed una grossa parte di quelle locali, per non parlare delle gerarchie Vaticane): Marino ha fatto prima saltare il secondo salva Roma invocando folle armate di forconi, esponendo Renzi premier da appena un mese alla prima battuta di arresto e poi è stato incapace di adattare quel modello al tempo dell’austerità fiscale con una cura shock che innalzasse ancora di più il prelievo fiscale, privatizzasse definitivamente la gallina dalle uova d’oro Acea, e socializzasse il debito delle società municipali di servizio per poi metterle sul mercato. (Questo non gli ha ovviamente impedito di concordare il quadro normativo nel successivo e definitivo testo del salva Roma). Ha saputo, in compenso, esercitare il suo coraggio sul salario accessorio dei dipendenti comunali, sui carichi di lavoro dei lavoratori delle società municipali lasciando il lavoro sporco della repressione dei movimenti sociali ingenerati dalla crisi sociale della città al Prefetto Gabrielli.

Non ci interessa parlare della discutibile figura del sindaco genovese, ricordando soltanto a scanso di equivoci, non deve la sua ambiguità di comportamenti alla estraneità alla Politica, non essendo stato affatto candidato come espressione della società civile, ma come alfiere di Goffredo Bettini, plenipotenziario del pd romano per quindici anni, ideatore del modello Roma di cui sopra, e referente nel Pd dei grandi gruppi immobiliari. Va detto però, che al di là di Marino una specificità c’è nella vicenda romana. La mobilitazione dei poteri messi in campo per l’attuazione del progetto reazionario di ristrutturazione sociale della città è centrata non solo sulla Prefettura, ma anche sulla Procura della Repubblica. Da un certo tipo di lancio mediatico dell’Inchiesta Mafia Capitale, alla vicenda degli “scontrini”: dopo un silenzio di venti giorni l’iscrizione nel registro degli indagati di Marino avvenuta il giorno del suo estremo tentativo di restare in sella, la Procura di Roma ha sempre dato l’idea di giocare un ruolo in una partita decisiva. Non è un caso che una parte dei poteri giudiziari utilizzi il loro uomo-immagine del momento per propagandare che la Corruzione sia una morbo dell’intero corpo sociale della città e non un fenomeno criminale che cresce negli interstizi del rapporto tra Stato e Impresa. Nella Suburra nessuno è “innocente” dal politico, allo zingaro, al disgraziato. In questa maniera conflitto sociale e criminalità dei colletti bianchi sono immediatamente equiparati lasciando invocare una repressione che sia un tot al chilo, che consenta di estirpare il primo e lasciar proliferare la seconda. La via milanese ai grandi eventi è diventata nelle ultime ore qualche cosa di più di un riferimento ideale con la nomina del commissario prefettizio Tronca, quello dei 200 sgomberi prima di EXPO, il modello proposto è quello degli sgomberi e degli appalti truccati. La sfida è nell’opposizione sociale di questa città, e nei tanti settori di scontento che ancora non raggiungiamo, diffondere gli “anticorpi” per contrapporci ai veri barbari.

Roma, Cronache post-Marziano

cronache-marzianeA Roma il tempo sembra sospeso nell’attesa.

In questo interregno targato Gabrielli, i partiti sono intenti a cercare il volto buono aspettando le elezioni della primavera prossima. I sindacati aspettano interlocutori per intavolare trattative, il governo cerca un Dream Team, i pendolari cercano di tornare a casa aspettando la metro, giornalisti e curiosi guardano Suburra e contano i giorni per il 5 novembre quando inizierà il processo per mafia capitale.

Nessuno sa quali delle brillanti operazioni che la giunta Marino aveva in cantiere, saranno realizzate e quante dovranno aspettare il prossimo compiacente sindaco. Verrà approvata la delibera che consente di trasformare in supermercati, i cinema abbandonati? Avranno futuro i s.a.t. (Nuova versione dei residence per l’emergenza abitativa)? Sarà privatizzata l’azienda dei rifiuti? Le caserme saranno trasformate in appartamenti di lusso?

In questo stallo che è una forma di governo della città, ieri a La Sapienza, dove veniva inaugurata la Maker Faire, grande evento che mette in mostra l’artigianato digitale del piccolo Maker, accompagnato da grandi sponsor e calpestando gli studenti univeristari costretti a pagare per entrare nella propira università, Gabrielli ha ricordato che per difendere questo status quo è disponibile a schierare decine di poliziotti con tanto di blindati e idranti.

Ancora una volta si è data dimostrazione di una gestione dell’ordine pubblico che più che a prevenire eventuali disordini è finalizzata a ridurre al silenzio ogni tentativo di opposizione con l’obbiettivo esplicito di pacificare la città verso il giubileo.

Questo perché al netto delle retoriche sull’innovazione, sulle start up e sul job’s act la verità è che l’unica ipotesi di sopravvivenza alla crisi su cui la governance cittadina investe è quella di garantirsi nuove rendite dalla recinzione degli spazi pubblici, dalla valorizzazione immobiliare, dalla privatizzazione dei servizi e dal lavoro gratuito o sottopagato.

Che si svolgano in ex-cinema o in caserme, che servano come scusa per edificare interi quartieri o, come in questo caso, siano ospitati nella città universitaria, fiere e grandi eventi rappresentano un’occasione unica di accelerazione per questo processo di espropriazione e messa al lavoro.

Nessuna redistribuzione all’orizzonte, niente investimenti, niente posti di lavoro. Il capitale salva se stesso spremendo gli studenti, i lavoratori e gli abitanti dei quartieri popolari.

Ci sembra che sia ormai coscienza condivisa che tale orizzonte procede insieme alla restrizione degli spazi di agibilità. Oggi non c’è spazio per dimostrazioni che non tengano conto della necessità della rottura perché anche il diritto degli studenti ad entrare gratuitamente nel proprio ateneo viene impedito con cariche e arresti, oggi anche gli studenti delle scuole che manifestano pacificamente contro la Buona Scuola vengono multati e denunciati.

Il tema è se questa coscienza diventa l’alibi per una resa incondizionata in nome dell’attesa di tempi migliori o se è il punto di partenza per rovesciare il tavolo, il terreno su cui immaginare una scommessa in avanti che si ponga inevitabilmente il problema di pensare il giubileo come un’occasione per mettere in difficoltà la controparte.

Le piazze di risposta allo sgombero di Degage, i primi cortei degli studenti delle scuole, la determinazione di quanti ieri non si sono fatti inibire dalla sproporzione dei mezzi messi in campo dalla controparte ci restituiscono l’immagine di una composizione giovanile che si qualifica come variabile incontrollata e come incontrollabile spina nel fianco del tentativo di pacificazione giubilare.

Una composizione che sta scompaginando le alleanze e gli schieramenti di movimento non per cercare un’unità impossibile ma perché condivide la necessità di non aspettare oltre e di cui saremo chiamati a misurare nelle prossime settimane le capacità di allargamento e di tenuta.

Una composizione che si sta caricando sulle spalle l’onere e l’onore di entrare a spinta nella vetrina giubilare e allo stesso tempo si pone il problema di costruire nell’università, nelle scuole e nei quartieri forme di militanza all’altezza delle contraddizioni del presente.

Perché per tornare a scorrere a volte il tempo ha bisogno di una spinta.

Marino Capitola

marinoAlla fine è caduto per delle cene. Scontrini alla mano Marino ha assistito alla sfilata di prese di distanza, smentite e dimissioni. Prima il papa che nega di averlo invitato a Philadelfia, poi la comunità di Sant’Egidio che nega di esserci stato a cena, per finire gli assessori Esposito, Causi e Di Liguori, imposti a luglio dal governo, che si sono dimessi mettendolo di fronte all’impossibilità di proseguire il suo mandato.

Mentre Roma viene consegnata nelle mani del prefetto Gabrielli e il Movimento 5 stelle, l’estrema destra e quello che resta del centrosinistra inaugurano la campagna elettorale si fa senso comune l’idea che Marino sia caduto per “troppa onestà”.

Sarebbe la sua estraneità al mondo dei poteri forti, la sua distanza dal mondo di Mafia Capitale ad aver determinato l’isolamento del sindaco marziano, come lui stesso rivendica anche nell’ultimo messaggio alla città.

La verità è che Marino ha servito degli interessi per nulla deboli. Ha candidato Roma per i giochi olimpici del 2024, ha approvato la costruzione di un intero nuovo quartiere con la scusa dello stadio della Roma, ha promosso la trasformazione delle ex caserme in appartamenti di lusso e dei cinema chiusi in megastore, aveva da poco confermato l’intensione di privatizzare i servizi pubblici.

Per sostenere questi interessi ha trovato alleati in questura, nelle opposizioni, nelle consorterie e nelle lobby come i suoi predecessori, ha affrontato a muso duro solo i senza casa, i lavoratori del comune, gli autisti dell’atac, gli occupanti di spazi sociali. Poco cambia se ad avvantaggiarsi non sono stati Buzzi & Carminati ma Parnasi e le cooperative cattoliche.

Marino è caduto perché non serviva più. Era un sindaco outsider candidato in polemica con l’establishment del Partito Democratico in un periodo in cui quel partito non era in grado di esprimere una leadership credibile. Era il sindaco di un’altra fase.

Oggi c’è Gabrielli. Uno sbirro per pilotare la svendita del patrimonio immobiliare e dei servizi pubblici, per normalizzare i conflitti, per annichilire tutto ciò che oppone resistenza.

Oggi c’è il giubileo. Una vetrina per nascondere la continuità degli affari che la logica dell’emergenza continua a garantire sulla pelle di senza casa, migranti e rom.

Per chi ha a cuore la giustizia sociale la priorità rimane rompere questa vetrina e cacciare questo sbirro, con Marino o senza Marino.